L’ordinamento legislativo italiano prevede che chiunque procuri ad altri un danno ingiusto sia tenuto a risarcirlo. Il risarcimento del danno è disciplinato sia dal Codice Civile che, in alcuni casi, dal Codice Penale: queste due fonti legislative stabiliscono criteri ben precisi che permettono di giudicare il risarcimento del danno, la natura del danno, ovvero se patrimoniale o non patrimoniale e tutte le condizioni che permettono di identificare l’ammontare del risarcimento. Inizieremo vedendo cos’è il risarcimento del danno, anche in forma specifica, e da quali articoli del Codice Civile è disciplinato. Ci sposteremo poi ad analizzare quando sorge il diritto al risarcimento del danno, e quando questo cade in prescrizione, secondo i termini di legge. Nella seconda parte, invece, analizzeremo la tassazione che si applica nel caso del risarcimento del danno, ed in particolare la norma che disciplina il lucro cessante. Infine, vedremo le leggi che disciplinano le condanne al risarcimento del danno, e gli organi di competenza (come il Giudice di Pace) disciplinati dall’attuale giurisprudenza.
Il risarcimento del danno è una delle forme di risarcimento danni prevista dal Codice Civile e che insorge quando si subisce un danno che viola il principio del neminem laedere. Secondo questo principio del nostro ordinamento, infatti, ciascuno deve comportarsi in modo da non recare alcun pregiudizio ad altri. Nel momento in cui questo non avviene, si concretizza il danno. Il risarcimento è, quindi, la forma di ristoro del danno subito. La giurisprudenza distingue però due tipi di condotta diversi da cui può scaturire il danno: extracontrattuale o contrattuale.
Tra il fatto illecito e il danno deve però sussistere un nesso di causalità, ovvero la condotta è la causa dell’evento che ha causato il danno. Questo tipo di responsabilità extracontrattuale può essere fatta valere dalla parte danneggiata ogni volta in cui una condotta contraria alla legge ha causato il danno.
Il Codice Civile prevede anche l’applicazione del risarcimento del danno in caso di inadempimento o violazione degli obblighi contrattuali. Il caso della responsabilità contrattuale si configura quando un soggetto obbligato dal vincolo del contratto non adempie agli obblighi dell’accordo che intercorre tra le parti, anche in caso di adempimento inesatto o tardivo. Le fonti di responsabilità contrattuale, però, non sono solo i contratti. I contratti sono delle fonti tipiche, ma esiste anche una serie di fonti atipiche, riportate di seguito: • Legge • Arricchimento senza causa • Promesse unilaterali • Contratto sociale • Gestione di affari • Pagamento dell’indebito • Qualunque altro fatto idoneo Il Codice Civile individua nel buon padre di famiglia la condotta a cui il debitore deve uniformarsi per adempiere agli obblighi contrattuali. Il comportamento negligente è però causa di responsabilità di colpa e quindi obbliga il soggetto che lo ha posto in essere a risarcire il danno. Nel caso specifico di svolgimento di attività professionale, la giurisprudenza richiede un grado di diligenza commisurato al tipo di prestazione, quindi ancor maggiore rispetto a quella richiesta nel caso generale del pater familias.
Risarcimento del danno e indennizzo sono due due attività diverse. Il risarcimento, come abbiamo visto, è quel tipo di attività che la legge impone nel caso in cui si debba riparare ad un danno in giusto. L’indennizzo, invece, è un’attività che viene posta in essere dalla legge nei casi in cui non venga provocato un danno ingiusto. In questo caso, sebbene non vi sia l’obbligo di risarcire il danno, la legge stabilisce che il soggetto leso possa ricevere una somma di denaro – l’indennizzo – che possa equilibrare una situazione che rischia di diventare ingiusta. Il caso tipico è quello descritto dall’art. 2045 C.C, che descrive il cosiddetto stato di necessità. Chi danneggia altri per salvare se stesso o terzi da un danno grave alla persona, non è obbligato a risarcire il danno, ma il giudice può riconoscere al danneggiato una somma: l’indennizzo.
Il risarcimento del danno non patrimoniale riguarda le situazioni in cui è possibile chiedere il ristoro del danno nel caso di lesioni alla persona. È la sentenza n.9283/2014 della Corte di Cassazione a chiarire le diverse situazioni in cui si configura un danno non patrimoniale: “La categoria del danno non patrimoniale attiene ad ipotesi di lesione di interessi inerenti alla persona, non connotati da rilevanza economica o da valore scambio ed aventi natura composita, articolandosi in una serie di aspetti (o voci) con funzione meramente descrittiva (danno alla vita di relazione, danno esistenziale, danno biologico, ecc.); ove essi ricorrano cumulativamente occorre, quindi, tenerne conto, in sede di liquidazione del danno, in modo unitario, al fine di evitare duplicazioni risarcitorie, fermo restando, l'obbligo del giudice di considerare tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso, mediante la personalizzazione della liquidazione (Cass. n. 21716/2013; n. 1361/2014; S.U. n. 26972/2008). Non è, pertanto, ammissibile nel nostro ordinamento l'autonoma categoria del "danno esistenziale" in quanto tutti i pregiudizi di carattere non economico, concretamente patiti dalla vittima, rientrano nell'unica fattispecie del "danno non patrimoniale" di cui all'art. 2059 c.c., Tale danno, infatti, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., costituisce una categoria ampia, comprensiva non solo del c.d. danno morale soggettivo, ma anche di ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, dalla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di valutazione economica, purché la lesione dell'interesse superi una soglia minima di tollerabilità (imponendo il dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., di tollerare le intrusioni minime nella propria sfera personale, derivanti dalla convivenza) e purché il danno non sia futile e, cioè, non consista in meri disagi o fastidi (Cass. n. 26972/2008; n. 4053/2009). ... bi-polarità tra danno patrimoniale (art. (2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) e dovendo quest'ultimo essere risarcito non solo nei casi previsti dalla legge ordinaria, ma anche ove ricorra la lesione di valori della persona costituzionalmente protetti cui va riconosciuta la tutela minima risarcitoria (Cass. n. 15022/2005)“ Con questa sentenza, che chiarisce l’art. 2059 C.C., è chiaro che il danno non patrimoniale comprende il danno biologico, il danno morale e il danno esistenziale.
Il danno biologico è quel danno che causa la lesione temporanea o permanente dell’integrità psicofisica della persona, che è suscettibile di perizia medico legale, che ha incidenza sulle attività quotidiane del danneggiato, nonché sulle sue relazioni, indipendentemente da ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito. Questa è la definzione di danno biologico contenuta nel comma 2, art. 139 del Codice delle assicurazioni private, poi modificata dalla legge n. 2085/2015. La definizione si applica a tutti i casi in cui il soggetto subisca danni alla sua salute a causa della condotta illecita altrui. La sentenza n. 7766 del 20.04.2016 della Cassazione civile ha previsto, inoltre, in base al principio di personalizzazione del danno e in caso di lesioni dovute a un sinistro stradale, che il risarcimento del danno biologico può essere aumentato fino al 30% rispetto a quanto previsto dagli standard risarcitori.
Il danno morale si ricollega a una lesione fisica o alla perdita di un caro. Riguarda, quindi, la sofferenza soggettiva interiore ed è riconducibile alla categoria del danno biologico, come previsto dall’art. 2059 C.C. La Cassazione ha però liberato il danno morale da un vincolo che era previsto dal Codice Civile, ovvero che il danno morale fosse riconosciuto solo in favore di vittime di un illecito penale. Di solito, il danno morale è associato insieme al danno biologico. Il giudice, inoltre, è tenuto a valutare la portata del danno morale indipendentemente dalla capacità del soggetto danneggiato di produrre reddito.
Il danno esistenziale è definito come il danno arrecato all’esistenza, quindi quel danno che ha come effetto il peggioramento della qualità della vita, anche se non viene inquadrato nel danno alla salute. Ancora una volta è stata la sentenza n. 7766 del 20.04.2016 della Cassazione a dettare i principi del danno esistenziale. La Cassazione ha infatti affermato come il danno esistenziale non possa essere compreso all’interno della categoria del danno biologico. Se il danno morale, infatti, è legato a un sentire interiore, il danno esistenziale è relativo al modo in cui un soggetto percepisce se stesso in relazione agli altri. Sulla base di questa distinzione, il danno esistenziale ha così una sua autonomia di risarcimento, anche perché è possibile che i due tipi di danno, morale ed esistenziale, non si presentino insieme, contestualmente.
Il danno patrimoniale è il danno che è prodotto dal mancato adempimento contrattuale o da un illecito extracontrattuale verso un soggetto che subisce conseguenze o ripercussioni negative sul suo patrimonio. È evidente come il risarcimento del danno patrimoniale sia direttamente ricollegato alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale citate in precedenza. Sono gli artt. 1223, 1226 e 2056 C.C. a definire i criteri per il risarcimento del danno patrimoniale, attraverso il danno emergente e il lucro cessante.
Il danno emergente è un danno immediatamente riscontrabile che si verifica quando un soggetto vede diminuire il suo patrimonio. Un esempio è dato dalle spese mediche che vengono sostenute per un intervento correttivo, dopo una prestazione medica errata. In questo caso, il soggetto sarà costretto a dover pagare un ulteriore intervento, situazione che vedrà diminuire il suo patrimonio: questo è il caso del danno emergente.
Il lucro cessante è invece un danno ascrivibile al futuro nella situazione di mancato guadagno e/o perdita di future opportunità lavorative. Viene riconosciuto questo tipo di danno quando si ha la certezza concreta o sia ritenuta probabile l’esistenza del danno e delle sue conseguenze. In questo caso bisogna fornire prova rigorosa del mancato guadagno o opportunità. A dirlo è la sentenza n. 23304/2007 della Cassazione che afferma: “Occorre pertanto che dagli atti risultino elementi oggettivi di carattere lesivo, la cui proiezione futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa, e che si traducano, in termini di lucro cessante o in perdita di chance, in un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia meramente potenziale o possibile, ma che appaia invece - anche semplicemente in considerazione dell'id quod plerumque accidit connesso all'illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità”.
Il risarcimento del danno viene calcolato attraverso tre criteri: il risarcimento in via equitativa, il risarcimento in forma specifica e il risarcimento per equivalente. Sono tre criteri che esaminiamo nel dettaglio per coglierne differenze e sfumature, per capire quando possono essere applicati e quando il soggetto non è tenuto al risarcimento del danno.
Il risarcimento del danno avviene in via equitativa quando si è certi del danno, ma non della sua entità. Il danneggiato, su cui ricade l’onere probatorio dell’esistenza del danno, è tenuto a provare l’esistenza del danno. Certi danni, però, sono difficili da quantificare, vista la loro specificità tecnica, sia in caso di danni da responsabilità contrattuale che extracontrattuale. In questo caso, se non è stato dimostrato il quantum, il giudice potrà stabilire un risarcimento in via equitativa.
Il risarcimento del danno in forma specifica è una tipologia di risarcimento danni che viene disciplinata dal Codice Civile. Questo tipo di risarcimento danni può essere richiesto solo quando, a seguito di un danno ingiusto subito, è materialmente possibile riportare il il bene che è stato danneggiato alla condizione in cui si trovava prima del danno. È compito del giudice stabilire se il risarcimento in forma specifica sia possibile. Il giudice può nominare periti e tecnici per avere un parere esperto sulla materia oggetto del procedimento. Quando il ripristino dell’oggetto o della situazione allo stato originale non può avvenire, il giudice ordina il risarcimento per equivalente, ovvero un corrispettivo in denaro che la parte che ha procurato il danno deve pagare alla parte danneggiata. Il risarcimento in forma specifica non deve essere confuso con l’esecuzione in forma specifica. Nonostante il nome porti con sé diverse analogie, si tratta di due istituti completamente diversi. L’esecuzione in forma specifica ordina a un soggetto di compiere una determinata obbligazione, mentre il risarcimento in forma specifica obbliga ad eliminare il danno provocato.
Il risarcimento del danno per equivalente è la forma più tipica di risarcimento, che si manifesta con una somma di denaro che il soggetto che ha procurato il danno deve riconoscere a chi è stato danneggiato. La somma rappresenta il valore dell’oggetto o della situazione danneggiata. La sentenza n. 1186 del 2015 della Cassazione prevede anche che vi sia la possibilità di convertire la domanda risarcitoria in forma specifica con il risarcimento del danno in forma equivalente, visto che si tratta di due modalità diverse per l’applicazione del diritto risarcitorio posseduto dalla parte danneggiata.
Nel caso in cui un soggetto subisca un danno in conseguenza di un reato, può chiedere il risarcimento del danno, attraverso due strade. 1) Il soggetto danneggiato dal reato può farsi valere davanti al giudice penale come parte civile all’interno del processo penale e presentare la domanda di risarcimento o restituzione. Questo è il caso in cui il soggetto danneggiato entra a far parte del processo come parte eventuale, oltre il P.M. e l’imputato. Oltre alla domanda risarcitoria, può presentare anche perizie e memorie. 2) Il soggetto danneggiato può aprire un procedimento civile per il risarcimento del danno, parallelamente al processo penale. In questo caso, gli esiti dei due processi sono scollegati e l’esito dell’uno non verrà condizionato dall’esito dell’altro. Questo avviene in tutti i casi tranne quando nel processo penale sia già stata pronunciata una sentenza di primo grado o se un soggetto o un’entità si siano già costituiti parte civile. L’articolo 1382 del C.P. contiene anche la cosiddetta clausola penale, descritta come il patto che intercorre tra il soggetto danneggiato e il soggetto autore del danno: la parte debitrice, in caso di inadempimento di un’obbligazione, deve effettuare altra prestazione, o versare una somma di denaro. Bisogna sottolineare, infatti, che l’art. 1382 non parla di somma di denaro, ma della più generica prestazione.
La legge, ovviamente, non prevede solo la condanna al risarcimento del danno in sede penale, come abbiamo appena visto. La condanna generica al risarcimento del danno avviene quando un giudice accerta la lesione di un diritto in seguito a un comportamento illegittimo. Successivamente si ha la prova relativa all’entità del danno, nella fase di liquidazione, in cui il giudice potrà effettivamente determinare l’ammontare del danno e procedere al risarcimento in via equitativa, in forma specifica o per equivalente.
È l’art. 2947 del C.C. a disciplinare l’istituto giuridico della prescrizione del diritto al risarcimento del danno. In particolare, il diritto si prescrive in cinque anni a partire dal giorno in cui si è verificato il fatto che ha procurato il danno. Un’eccezione è nel caso di violazione di una norma del Codice della Strada: in questo caso il diritto si prescrive nel termine breve di due anni. L’attenuante è invece prevista dall’art. 62 C.P. che afferma come, qualora la parte danneggiata abbia dichiarato di voler rinunciare alla somma di denaro offerta per ripristinare il danno, è necessario che l’imputato abbia in ogni caso fatto un’offerta reale di tale somma, per consentire al giudice di valutare la serietà e la misura congrua dell’offerta stessa. L’attenuante in esame viene negata nel caso in cui il giudice non abbia avuto la possibilità di valutare l’effettività dell’offerta.
Il risarcimento del maggior danno si verifica quando si ha un adempimento ritardato all’obbligo di risarcimento. In questo caso, la parte lesa viene ulteriormente danneggiata dalla possibilità ormai persa di poter investire la somma di denaro che avrebbe dovuto ricevere come risarcimento, e quindi ha perso un ulteriore guadagno finanziario. Questo è il caso degli interessi compensativi. In questo caso però possiamo affermare, in base all’ex art. 1224 C.C., che il risarcimento del maggior danno può essere riconosciuto solo se il mancato risarcimento in denaro da parte del creditore sia accertato, così come deve essere certo il nesso causale tra il mancato risarcimento e il danno patrimoniale subito. L’onere della prova in concreto spetta al creditore, che deve dimostrare di non aver avuto il risarcimento e di aver diritto al risarcimento del maggior danno, che non è conseguenza automatica della mora.
La rinuncia al risarcimento del danno si verifica quando il soggetto danneggiato dichiara formalmente in sede civile di rinunciare al diritto al risarcimento. In questo caso il responsabile civile non subisce nessun processo ed esce indenne dal procedimento, ma non solo. Il soggetto danneggiato che ha rinunciato al diritto del risarcimento rinuncia anche alla presentazione di future richieste di risarcimento per eventuali danni. In questo caso possiamo dire che il risarcimento del danno è una carta che va giocata una sola volta, quando si verifica il danno.
La remissione della querela è disciplinata dall’art. 152 s.s. C.P. ed è l’atto attraverso cui il soggetto danneggiato manifesta la propria volontà di non voler perseguire ulteriormente la persona che ha procurato il danno. Per avvalersi della remissione della querela, occorre che il soggetto danneggiato abbia in precedenza attivato il diritto al risarcimento del danno ex art. 340 C.P.P. contro un reato di cui è stato vittima. La legge dà quindi la possibilità di ripensamento al soggetto danneggiato, che può scegliere di non intervenire contro un altro soggetto, salvo i casi in cui la legge specifica che di debba procedere d’ufficio.
Il danno differenziale e l’indennizzo Inail non sono la stessa cosa. Per danno differenziale si intende il danno che il lavoratore si vede risarcito a causa di infortunio sul lavoro o malattie professionali di cui ha sofferto. Il danno differenziale corrisponde alla differenza che si ha tra il danno che è risarcibile in sede civilistica e la somma già corrisposta dall’Inail al soggetto che ha subito il danno. Il danno differenziale, infatti, è regolato dalle norme del Codice Civile, ed ha come obiettivo il risarcimento dell’intero danno subito dal lavoratore in conseguenza dell’evento che ha determinato l’infortunio o la malattia. L’indennizzo Inail, invece, ha carattere sociale e ha l’obiettivo di poter fornire dei mezzi adeguati al lavoratore che ha subito l’infortunio o la malattia. La Cassazione ha stabilito che, in caso di diritto di risarcimento del danno biologico, l’indennizzo Inail possa essere decurtato della somma del risarcimento del danno. L’indennizzo, in questo caso, verrà solo pagato per differenza: questo vale sempre tranne nel caso in cui non si configuri, afferma la Cassazione, un arricchimento indebito da parte del danneggiato.
Quando si parla di risarcimento del danno, la tassazione si applica solo su lucro cessante, quindi nel caso in cui si abbia un mancato guadagno o, come già affermato, una perdita di future opportunità lavorative. Questo tipo di risarcimento compensa la perdita del reddito che sarebbe stato percepito se non ci fosse stato il danno. E, dunque, se fosse stato percepito, sarebbe stato anche tassato. La legge obbliga dunque a tassare il risarcimento del danno per lucro cessante, visto che questo tipo di indennizzo per mancato guadagno ha una natura reddituale, e quindi forma una base imponibile ai fini Irpef. Le altre voci di risarcimento, invece, non vengono tassate perché sono intese dal legislatore come voci di ristoro di una situazione precedente, e non un guadagno che si è perso in conseguenza di un danno.